PROGRESSO & MODERNITA’

Riflessioni sul potere

L’eclissi delle ideologie che ha segnato il “liberi tutti” di un ‘900 alle sue battute finali, inducendo taluni[1] a parlare di “fine della Storia”, ha determinato l’inarrestabile scivolamento dei partiti politici occidentali verso approdi demagogico-populisti, alimentando il dibattito, sul tema, soprattutto da parte dei maggiori politologi d’oltralpe.

Il paradigma di un destino comune disegnato dalla principale utopia politica del ‘900 è naufragato, tra rimpianti e tripudio, incalzato dagli insuccessi e dal crollo dell’Impero che intendeva rappresentarne l’immagine reale.  E quel crollo, ha trascinato con sé ogni altro genere di utopia o progettualità politica, declassando la categoria della “politeia” a mera  amministrazione dell’esistente.

L’esangue –un tempo opulenta- società occidentale ha, così, accompagnato “doucement” le masse verso risibili destini individuali, serrati in un guscio di egoismi / egotismi beffardamente appagati con  saldi di fine stagione.

Mentre il sentimento di “destino comune” andava dileguando dall’anima dei popoli occidentali, in concomitanza con questo sentire, gli Stati provvedevano a liquidare il patrimonio industriale e finanziario pubblico … e il c.d. “Stato sociale”.

Imbarazzanti slogan (“uno vale uno”) hanno segnato il definitivo inabissamento della politica nella sua accezione aristotelica[2], e l’affacciarsi sulla scena di un populismo che, in assenza di “popolo”, è stato sostituito da  un governo della “massa” composta di monadi che vivono l’una a fianco dell’altra, perdute in sogni individuali, in condizione di totale estraneità.

L’evaporazione della Politica ha trascinato con sé la diade “destra / sinistra”, smascherando la dislocazione del Potere  reale (finanziario-tecnocratico) in un “Altrove” nel quale queste categorie perdono significato e divengono grottescamente fungibili rispetto alla continuità progettuale perseguita, per il loro tramite, da quel Potere.

Accade, così, scrutando l’orizzonte della Rivoluzione Globale, che le categorie “destra / sinistra”, svaniscano in dissolvenza, private, ormai, di realtà ontologica e, quindi, “riassorbite” “per sopravvenuta inutilità”. Dopo aver appalesato il loro ruolo strumentale nell’ambito di una dialettica rivoluzionaria.

Come noto, le categorie politiche “destra / sinistra” nascono con la Rivoluzione del ’89 dalla semplice collocazione fisica (nell’aula) dei rappresentanti degli Stati Generali.

Eppure, la circostanza che il fenomeno rivoluzionario sia, il più spesso delle volte, traguardato da una posizione “a sinistra della rivoluzione”  ha frequentemente indotto alcuni commentatori a liquidare la Rivoluzione del ’89 come “rivoluzione borghese”.

In realtà, questa classificazione si rivela assai sommaria e trascura certamente il carattere proteiforme e composito delle forze e delle istanze sociali che intervengono nel fenomeno storico, determinando l’alternanza di componenti moderate (girondini), con quelle massimaliste (giacobini) o “restauratrici” (termidoriani).

L’approccio in rassegna si preclude, tra l’altro, la possibilità d’intercettare e comprendere il fil rouge che lega la rivoluzione del ’89 a quella successiva del ’48.

Neppure può condividersi la dicotomia forzosamente introdotta tra ideologia liberale e, rispettivamente, progressista, che vengono indebitamente contrapposte … mentre un più lucido pensiero reazionario identifica nel pensiero liberale e in quello socialista (di matrice marxista) due facce della stessa medaglia[3].

Il fenomeno rivoluzionario del ‘17, quantomeno nella sua fase stalinista, disvelando la sua stretta parentela con il Terrore giacobino, lascia, piuttosto intravedere, soggiacente a un pensiero socialista ancora venato di conservatorismo, connotati antitradizionali e progressisti dei quali sono evidenti segni l’internazionalismo, la lotta condotta contro la chiesa ortodossa e, ancor più, contro i Vecchi Credenti nonchè lo sradicamento violento delle masse contadine; fenomeni tutti accompagnati dall’industrializzazione forzata e dal Kulturkampf sovietico.

Mentre, sul versante della Rivoluzione dell’ottantanove, non si può certo passare sotto silenzio la sua vocazione al sovvertimento delle strutture politiche esistenti, o la sua avversione per Chiesa e Religione, diffuse e imposte a tutta Europa dalle armate e dalle baionette napoleoniche.

All’intuizione dell’unica matrice comune a liberalismo e socialismo, corrisponde la perdita di significato delle distinzioni tra “destra” / “sinistra” che avvalora, piuttosto, la felice intuizione di Jean Dumont[4], secondo il quale, entrambe queste categorie debbono essere riferite, dialetticamente, alla Rivoluzione dell’ottantanove, piuttosto che al contrasto tra Ancien Régime da un lato e Rivoluzione, dall’altro.

La stessa azione di Mirabeau, convinto rivoluzionario, eppure moderato e astuto intermediario tra l’Assemblea Costituente e la Corte,  suona diretta conferma degli assunti illustrati.

In altre parole (e con molta maggiore aderenza agli elementi fattuali e all’evoluzione della Rivoluzione) Dumont sostiene a ragione che tanto alla “destra” (borghese) rappresentata prima dai Foglianti, poi dalla Gironda, quanto alla “sinistra” (costituita da giacobini e sanculotti) sia stato comune un atteggiamento di condivisione e sostegno della Rivoluzione, salvo rappresentare interessi e “impazienze rivoluzionarie” diversi.

Appare, così, innegabile che la rivoluzione del ’89, cui concorre egualmente la duplice matrice liberale / giacobina, manifesti da subito una profonda convergenza di queste due anime sulla (comune) categoria del “progresso” accompagnato da una spinta totalitaria alla concentrazione del potere.

In tal modo, il fenomeno rivoluzionario espresso dalle “due rivoluzioni” –lasciando fuori, pertanto, per differenza dei meccanismi e degli esiti, sia la rivoluzione inglese sia quella americana- appare da subito fortemente connotato come fenomeno “moderno” legato sia all’idea di “progresso” che al pensiero storicista.

Ed è proprio nella categoria del “Progresso” che va, infatti, individuato il nucleo centrale del processo rivoluzionario sul quale converge tanto il pensiero liberale quanto quello socialcomunista.

Il restante apparato ideologico e i troppo declamati “immortali principi” -che hanno, viceversa, dimostrato la loro mortalità- si sono rivelati mero accessorio. O meglio , efficaci strumenti di lotta politica che, sconfitto il nemico, possono essere abbandonati così come la farfalla abbandona le spoglie della crisalide.

Nello stesso modo la sinistra di fine ‘900, già marxista, si è liberata del proprio arsenale ideologico a favore di una svolta radical-progressista, per trasformarsi, di lì a poco, da alfiere della lotta di classe, nel peggior nemico del popolo e nel miglior battistrada del liberismo avanzato (e più sfrenato) al quale, di fatto, essa ha consegnato la società civile che in lei si riconosceva.

Cade, peraltro, in un grave errore ottico l’accusa indirizzata alla sinistra progressista di “tradimento dei propri valori”, essendo vero, per una beffarda eterogenesi dei fini (che riuscirebbe, forse sgradita a Carlo Marx) che proprio l’applicazione della dialettica marxista, conferma alla sinistra un ruolo coerente ai (superiori) principi rivoluzionari, dei quali il Progresso tout court è massima espressione!

Semmai, il “tradimento” è consistito nella dismissione di altri ammennicoli ideologici creduti veri dal popolo di sinistra.

La centralità dell’idea di Progresso, nell’ambito del pensiero della Modernità come Rivoluzione permanente, spinge a rintracciarne nessi e origini nel pensiero rinascimentale / umanistico (posto in evidenza dal “classicismo” che accompagna la Rivoluzione francese e i suoi riti).

Ciò in quanto, come evidenziato da un acuto interprete[5], i due imponenti fenomeni storici, nel collocare l’uomo al centro della vita e del mondo, hanno reciso gradualmente i legami dall’alto anticipando il titanismo della modernità.

Ma cosa sottende, in realtà, il culto idolatrico del Progresso?

E’, anzitutto, vero che l’idea di “Progresso” veicolata dalla modernità, tende a generare l’attesa escatologica di una pienezza umana e di un “riscatto” da perseguirsi in un futuro indefinito … che viene collocato sempre “un passo più oltre”.

L’aspettativa che ne consegue, esito di una sostituzione della trascendenza con un obiettivo immanente … ma irraggiungibile, appare il vero elemento propulsivo del sistema; ma il suo costrutto nichilista, determina lo svuotamento del presente, cui sottrae ogni significato.

In altre parole, il Progresso, sostanziando una meta impossibile,  si rivela funzionale al ruolo di “parodia del trascendente”.

La stessa svalutazione del passato, accompagnata dal taglio delle radici e dalla damnatio memoriae, è effetto aberrante (ma coerente) dell’apologia del Progresso, perché … se tutto il bene è rappresentato da ciò che verrà, il passato è solo zavorra. Ovvero, è il male che trattiene dal raggiungere l’obiettivo, … perché, in effetti, memoria e radici sono un potente antidoto al nichilismo.

Conseguentemente, l’uomo privato della memoria e delle radici, sarà ridotto ad una sorta di “Odisseo / Nessuno”. Ma, sarà pure, a differenza di Odisseo, un “Nessuno” in viaggio verso il Nulla.

Non più in grado di esprimere principi o valori. Quindi, incapace di giudizio e in balia di istinti, suggestioni, emozioni … evocabili “ad hoc” dal Direttore d’orchestra.

Stefano Tosi


[1] Francis Fukuyama “Il secolo breve”

[2] Ovvero del noto “zoon politikon”

[3] Julius Evola “Rivolta contro il mondo moderno”

[4] Jean Dumont “La rivoluzione”

[5] N. Berdiajev  “Nuovo medioevo”

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