LA “BASE LEGALE” CHE NON C’È: LA FOLLE SENTENZA N. 204/2025 DELLA CORTE COSTITUZIONALE SUL FINE VITA TRA RIGETTI E TAGLI E PERCHÉ NÉ IL “NON FONDATO”, NÉ L’“INCOSTITUZIONALE” CONVINCONO
La sentenza n. 204/2025 della Corte costituzionale decide (ancora una volta con un impianto argomentativo molto discutibile) sul ricorso in via principale del Governo della Repubblica contro la legge della Regione Toscana 14 marzo 2025, n. 16, pensata per disciplinare “modalità organizzative” del suicidio medicalmente assistito nel servizio sanitario regionale, assumendo come riferimento il diritto vivente delineato dalla Corte (sent. n. 242/2019; sent. n. 135/2024) in attesa di un intervento del legislatore statale.
Le censure governative si sono mosse lungo tre direttrici: invasione dell’ordinamento civile e penale (art. 117, comma 2, lett. l), Cost.), interferenza con la determinazione dei LEA (art. 117, comma 2, lett. m), Cost.), e violazione dell’art. 117, comma 3, Cost., perché, anche ammesso che si resti nella tutela della salute, una disciplina regionale di questo tipo presupporrebbe principi fondamentali statali puntuali e riconoscibili.
Il giudice delle leggi risponde con un esito composito. Da un lato dichiara non fondate le questioni rivolte contro l’intera legge e contro la clausola generale di finalità (art. 1) e respinge anche una parte delle doglianze sul telaio organizzativo residuo. Dall’altro lato dichiara incostituzionali alcune disposizioni: la norma che, nelle more della legge statale, pretendeva di stabilire per legge regionale i requisiti di accesso rinviando alle sentenze della Corte e innestando quel rinvio nel linguaggio della legge ordinaria dello Stato n. 219/2017 sulle c.d. “Dichiarazioni anticipate di trattamento” (art. 2); la previsione dell’istanza presentabile tramite delegato (art. 4, comma 1, nella parte corrispondente); i segmenti che imponevano termini rigidi per fasi centrali della procedura (artt. 5-6, nelle parti corrispondenti); e le parti dell’art. 7 che tipizzavano e qualificavano impropriamente il ruolo del servizio sanitario nella fase esecutiva, in particolare la qualificazione come “livello” superiore rispetto ai LEA e la previsione sulla “sospensione o annullamento dell’erogazione del trattamento” (art. 7, nelle parti corrispondenti).
Al tempo stesso Palazzo della Consulta dichiara non fondata la censura sulla copertura con risorse regionali proprie delle prestazioni, una volta eliminata la costruzione linguistica che evocava i LEA (art. 7, comma 2, secondo periodo).
Fin qui il quadro generale della pronuncia. Il problema, però, è che la motivazione non regge né nel “non fondato”, né, paradossalmente, in una parte dei “tagli”: la decisione appare, infatti, come un equilibrio di opportunità più che come un’applicazione coerente del riparto di competenze e del principio di legalità.
La non fondatezza contro la legge nel suo complesso si regge su una premessa: la Regione avrebbe legiferato nella tutela della salute e, in tale materia concorrente, i principi fondamentali non devono necessariamente essere enunciati in una legge statale “di principi”, potendo essere ricavati dal complesso della legislazione vigente.
La Corte, per rendere operativa questa premessa nel fine vita, richiama soprattutto la legge formale n. 219/2017 (consenso informato, rifiuto/interruzione dei trattamenti anche vitali) e la legge ordinaria dello Stato n. 38/2010 (cure palliative e terapia del dolore), lette “alla luce” della propria giurisprudenza (sent. n. 242/2019; sent. n. 135/2024; sent. n. 66/2025 etc.).
Qui sta il primo punto che non convince: non si tratta di capire se esistono norme statali sul fine vita in generale, bensì se esiste una disciplina legislativa statale idonea a fungere da “principio fondamentale” per una procedura che interseca, per struttura, la non punibilità dell’aiuto al suicidio (art. 580 c.p.) e dunque un nodo tipicamente attratto all’ordinamento penale e civile, oltre che alla tutela della salute.
È vero che la legge n. 219/2017 prevede una cooperazione istituzionale intensa: non è un manifesto astratto, ma una disciplina procedurale che vincola il medico, struttura il rapporto terapeutico, regola il rifiuto e la revoca del consenso, consente l’interruzione di trattamenti anche vitali, e collega tutto ciò all’obbligo di assicurare cure palliative e terapia del dolore.
Proprio per questo, tuttavia, il suo utilizzo come “base” per dire che il suicidio assistito non si colloca in un vuoto normativo è più problematico, non meno. La legge n. 219/2017 disciplina un istituto di libertà negativa: sottrae il paziente all’imposizione terapeutica e governa la cessazione della cura; l’evento morte può sopraggiungere come conseguenza del venir meno del trattamento, ma non è l’oggetto giuridico dell’azione sanitaria.
Il suicidio medicalmente assistito, invece, implica l’approntamento pubblico di mezzi e di un percorso che rende praticabile un esito letale attraverso un’organizzazione sanitaria; è un’altra forma di cooperazione, non meramente “permissiva” o “astensionistica”, ma funzionalmente orientata alla produzione dell’evento.
Questa differenza non è retorica: è decisiva per il riparto di competenze e per la legalità. Se la base legislativa statale manca, non la si crea dicendo che esistono norme su un altro istituto e che la Corte le ha “estese” in via giurisprudenziale.
È qui che la sentenza n. 204/2025 compie la sua torsione più delicata: usa come “principio” ciò che, in realtà, è il prodotto del proprio intervento supplente del 2018–2019 (ord. n. 207/2018; sent. n. 242/2019), intervento dichiaratamente transitorio “nelle more” del legislatore statale. La Corte trasforma, in altri termini, un ponte in un pilastro.
E, così facendo, apre lo spazio alla legislazione regionale “organizzativa” e poi cerca di controllarla con ritagli selettivi. Il risultato è un diritto a doppio fondo: unitario quando si afferma il perimetro della non punibilità, regionale quando si consente che quel perimetro diventi un percorso amministrativamente attuabile.
Il richiamo alla legge ordinaria dello Stato n. 38/2010, poi, non aggiusta la fragilità del ragionamento: quella legge serve a garantire presa in carico, cure palliative e terapia del dolore; usarla per sostenere che l’ordinamento “già contiene” i principi della procedura di suicidio assistito significa spostarne la ratio, trasformando una disciplina orientata alla cura e all’accompagnamento in un tassello di legittimazione del “percorso verso la morte”.
La Corte, nel valorizzarla, finisce per confondere un dovere di protezione (assicurare cure palliative effettive) con una pretesa di esigibilità organizzata di un istituto diverso, per il quale manca una scelta parlamentare organica.
Dentro questo quadro già incoerente, anche le dichiarazioni di incostituzionalità mostrano punti discutibili, perché spesso colpiscono il modo “esplicito” con cui la Regione dice ciò che sta facendo, più che il fatto che lo stia facendo.
L’annullamento dell’art. 2 è motivato dall’idea che la Regione non possa fissare per legge i requisiti di accesso, perché così inciderebbe sull’ordinamento civile e penale, stabilizzando in fonte regionale un’area di non punibilità che discende dall’art. 580 c.p. come reinterpretato dalla giurisprudenza costituzionale.
È un esito comprensibile, ma l’argomento non arriva fino in fondo. Se si riconosce che la determinazione dei requisiti incide sull’area della non punibilità, allora non è solo l’art. 2 a essere costituzionalmente sensibile: anche la costruzione regionale del procedimento, dei soggetti valutatori, delle condizioni operative e delle modalità di “accompagnamento” incide sul modo concreto in cui quella non punibilità diventa praticabile.
Il giudice della legittimità costituzionale, invece, fa passare l’idea che l’incidenza penale sia legata soprattutto alla “codificazione” testuale dei requisiti, mentre il resto sarebbe mera organizzazione. È una distinzione formalistica: nel diritto vivente la procedura è sostanza, perché decide chi apre e chi chiude la porta dell’accesso.
Se la Corte voleva essere coerente con il parametro dell’art. 117, comma 2, lett. l), Cost., l’annullamento non doveva concentrarsi solo sulla “norma che fissa i requisiti”, bensì sulla pretesa regionale di disciplinare, con fonte primaria regionale, l’architettura stessa del filtro pubblico che condiziona l’operatività dell’esimente.
In altri termini: l’art. 2 è caduto, ma la ragione “vera” per cui doveva cadere non è solo la cristallizzazione dei requisiti, è la scelta di trasformare una costruzione giurisprudenziale transitoria in un istituto regionale stabile. La Corte lo suggerisce, ma non lo assume come premessa generale, perché quella premessa travolgerebbe la non fondatezza sulla legge nel complesso.
Lo stesso vale per la caducazione dei termini rigidi (artt. 5-6, nelle parti corrispondenti). La Corte dice, in sostanza, che i termini perentori regionali incidono su un equilibrio delicatissimo e richiedono uniformità nazionale. Ora, se davvero l’uniformità è necessaria per evitare disparità e compressioni di garanzie, non è credibile che si possa tollerare un mosaico regionale di procedure “non perentorie” ma comunque diversificate.
Eliminare i termini non elimina il problema: sposta l’arbitrio dalla legge all’amministrazione, dalla perentorietà al “tempo ragionevole”, con esiti potenzialmente ancora più diseguali. La critica, dunque, è doppia: la Corte individua una questione reale (uniformità delle garanzie), ma sceglie un rimedio parziale che non colpisce la radice (regionalizzazione della procedura), e finisce per creare un’area grigia di discrezionalità amministrativa, poco compatibile con la prevedibilità che un istituto così radicale richiederebbe.
Quanto all’art. 7, la Corte colpisce la parte che “battezza” le prestazioni come livello superiore ai LEA e la parte sulla “sospensione o annullamento dell’erogazione del trattamento”, oltre a porzioni che vincolavano in modo tipizzato il ruolo del SSR nella fase esecutiva. Qui il difetto non sta nell’esito, bensì nel modo in cui la Corte maneggia il parametro.
Da un lato afferma, correttamente, che la determinazione dei LEA è riservata allo Stato (art. 117, comma 2, lett. m), Cost.) e che una Regione non può creare livelli essenziali “paralleli” o giocare con formule che li presuppongono. Dall’altro, salva la copertura con risorse proprie delle prestazioni, dopo aver espunto la qualifica “LEA”. Ne deriva un messaggio implicito: il problema sarebbe soprattutto il lessico, non l’effetto.
Tuttavia, l’effetto resta: la concreta esigibilità di una prestazione così delicata viene a dipendere dalla capacità finanziaria regionale, con una frizione evidente con l’eguaglianza sostanziale (art. 3 Cost.) e con l’idea stessa di livelli uniformi di tutela. Anche qui l’incostituzionalità avrebbe potuto essere dichiarata per un motivo più radicale e più coerente: non tanto perché la Regione usa la parola “LEA”, ma perché rende strutturalmente differenziabile, sul territorio, l’accesso effettivo a un percorso che incide sulla tutela della vita e sulle garanzie delle persone vulnerabili.
Resta, infine, la parte “non fondata” sull’impianto organizzativo residuo, inclusa la compatibilità della commissione multidisciplinare con l’assetto dei comitati etici. La Corte sostiene che le funzioni non coincidono e che non vi è sovrapposizione illegittima. Anche qui la motivazione è troppo indulgente: la moltiplicazione di sedi valutative e la loro concreta gerarchia incidono direttamente sulla posizione del richiedente e sulle garanzie di terzietà, oltre che sul rischio di trasformare una valutazione “clinico-giuridica” in un passaggio amministrativo ordinario.
In un istituto che la stessa giurisprudenza ha costruito come eccezione penalmente rilevante, la differenza fra “organizzazione” e “regolazione” non può essere ridotta a un problema di etichette funzionali.
In conclusione, la sentenza n. 204/2025 lascia in piedi la praticabilità del suicidio medicalmente assistito in Toscana entro il perimetro della sent. n. 242/2019 (e della giurisprudenza successiva), ma lo fa con una costruzione che resta costituzionalmente instabile: salva la cornice regionale perché dichiara che i principi fondamentali si possono ricavare dalla legislazione statale “di contesto” (legge n. 219/2017; legge n. 38/2010) letta attraverso la propria giurisprudenza; poi taglia ciò che è troppo esplicito, come se il problema fosse la “codificazione” più che la sostanza della regionalizzazione.
Il vero esito è un sistema in cui le condizioni sostanziali restano quelle del diritto vivente, mentre la realizzazione concreta è affidata a organizzazioni regionali differenziate e a una discrezionalità amministrativa crescente. E questo è, paradossalmente, ciò che la Corte dice di voler evitare quando invoca unità dell’ordinamento, uniformità delle garanzie e necessità di un intervento legislativo nazionale.
Daniele Trabucco
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