Oggetto e contesto della questione costituzionale
LA SENTENZA N. 199/2025 DELLA CORTE COSTITUZIONALE SULLA CERTIFICAZIONE VERDE (CARTACEA O DIGITALE) COVID-19. QUANDO “PERSEVERARE EST DIABOLICUM”
Origine del giudizio e decisione della Corte
Il Tribunale Ordinario di Catania, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale nel giudizio promosso da due dipendenti della Regione siciliana (Motorizzazione civile di Catania), alle quali dal 15 ottobre 2021 è stato impedito l’accesso al luogo di lavoro per mancanza di certificazione verde, con qualificazione dell’assenza come “ingiustificata” e perdita della retribuzione; per le ricorrenti ultracinquantenni, la preclusione è poi proseguita dopo l’introduzione dell’obbligo vaccinale e del requisito di certificazione “rafforzata” (vaccinazione o guarigione).
Valutazione della Corte e critica metodologica
La Corte costituzionale, con sentenza n. 199/2025, ha dichiarato non fondate le questioni, reputando non irragionevoli e non sproporzionate sia la disciplina del green pass sul lavoro, sia la sospensione senza retribuzione quale conseguenza della mancanza del requisito. Questa pronuncia, prima che contestabile nel merito, è pericolosa nel metodo: assume come “ragionevole” ciò che avrebbe dovuto essere provato con rigore massimo, poiché la misura non incide su un dettaglio organizzativo, ma condiziona lavoro e salario a un titolo sanitario.
Capovolgimento del principio di proporzionalità
In un sistema costituzionale, tanto più la compressione è intensa, tanto più stringente dev’essere il vaglio di idoneità, necessità e proporzione in senso stretto. Qui accade l’inverso: l’emergenza funziona da solvente delle garanzie e la proporzionalità si riduce a una formula di non manifesta arbitrarietà. Non è bilanciamento, è attenuazione del controllo.
L’assunto implicito e non dimostrato di “sicurezza”
Il punto, però, che rende l’impianto motivazionale internamente contraddittorio è l’assunto implicito di “sicurezza” che la certificazione vorrebbe veicolare. Il green pass, soprattutto nella sua declinazione “rafforzata”, è stato trattato come se potesse distinguere affidabilmente chi “non è pericoloso” da chi lo è e, dunque, come strumento idoneo a garantire ambienti di lavoro sicuri.
Inidoneità fattuale del green pass
Ora, questa pretesa non regge nemmeno sul piano fattuale minimo che un giudizio costituzionale non può eludere: la vaccinazione contro COVID-19, già nel periodo in discussione e ancor più con l’evoluzione delle varianti, non conferiva immunità sterilizzante; il vaccinato poteva contrarre l’infezione e trasmetterla. Le stesse autorità europee riconoscono espressamente che i vaccinati possono infettarsi e contagiare altri, e che i vaccini non arrestano la trasmissione “interamente”. Anche fonti statunitensi istituzionali ammettono, in termini netti, l’esistenza di “breakthrough infections” e il fatto che i vaccini non sono efficaci al 100% nel prevenire l’infezione.
Decadimento dell’efficacia e improprietà del “titolo sanitario”
La letteratura scientifica, inoltre, documenta il calo nel tempo dell’efficacia contro l’infezione (specie con Omicron) e l’attenuazione della protezione, rendendo ancora più improprio trasformare una probabilità variabile in un “titolo” giuridico di affidabilità sanitaria.
Il nodo decisivo ignorato dalla sentenza
Da qui discende la critica decisiva, che la sentenza non affronta: la certificazione verde non era, né poteva essere, una prova di non contagiosità. Non attestava che il soggetto fosse “sicuro” per l’ambiente di lavoro; attestava, al più, che il soggetto avesse compiuto un atto (vaccinazione) o attraversato un evento (guarigione) o prodotto un esito puntuale (test), senza che ciò equivalga a neutralità epidemiologica.
Il green pass come strumento di selezione amministrativa
Se il vaccinato può essere contagiato e contagiare, il green pass vaccinale non certifica la sicurezza dell’ambiente: certifica l’adesione a un requisito. Il pass si rivela, allora, per quello che giuridicamente è: una tecnologia di selezione amministrativa, non una garanzia sanitaria. E quando uno strumento è difettoso rispetto alla finalità che lo giustifica, la proporzionalità implode: non si può comprimere lavoro e salario in nome di una “sicurezza” che lo strumento non è in grado di assicurare.
L’insufficienza dell’argomento della “riduzione del rischio”
La Corte prova a compensare questo vuoto con un argomento di contesto (“riduzione del rischio”), ma è un ripiego che non salva la misura: trasformare una riduzione probabilistica, per giunta mutevole e soggetta a decadimento temporale, in una condizione legale di esercizio del diritto al lavoro significa scambiare l’incerto per il certo, il relativo per l’assoluto, il sanitario per il politico.
Contraddizione strutturale dell’impianto motivazionale
Qui la contraddizione è strutturale: o il green pass è davvero un presidio di sicurezza, e allora dovrebbe correlarsi in modo affidabile alla non pericolosità; oppure è solo un indicatore imperfetto di rischio, e allora l’ordinamento non può usarlo come grimaldello per sospendere retribuzione e vita lavorativa senza varcare la soglia dell’ingiustizia costituzionale. La sentenza, invece, pretende entrambe le cose: conserva la retorica della sicurezza e adotta, al bisogno, la teoria dell’imperfezione statistica. È un’oscillazione funzionale, non una motivazione rigorosa.
Elusione dell’art. 32 Cost.
Su questo terreno si innesta l’elusione dell’art. 32 Cost. La decisione normalizza il dispositivo come “condizione di accesso”, quasi fosse un requisito tecnico neutro. Tuttavia, proprio perché la certificazione non garantisce ciò che promette, la sua funzione reale emerge con nitidezza, ovvero esercitare pressione sull’autodeterminazione corporea tramite l’esclusione lavorativa e la privazione del salario.
Dalla sicurezza alla conformazione
L’ordinamento, di fatto, non dice soltanto “per lavorare devi ridurre il rischio”: dice “per lavorare devi dimostrare adesione a un percorso sanitario conforme”. La differenza è abissale. Nel primo caso si ragiona (davvero) di sicurezza; nel secondo si pratica conformazione. E la conformazione, quando passa attraverso il bisogno economico, non è una libera scelta; è coercizione socialmente efficace.
La fallacia della “scelta individuale”
La parte più vulnerabile dell’argomentazione è, infatti, la retorica della “scelta individuale”. Dire che la perdita della retribuzione deriva da una scelta equivale a imputare alla persona l’effetto di un congegno normativo costruito per indurre comportamento mediante minaccia di impoverimento. La scelta sotto ricatto economico è libertà nominale.
Deresponsabilizzazione del potere
Qui la sentenza tenta una deresponsabilizzazione del potere: la legge predispone un meccanismo espulsivo e, poi, attribuisce al singolo la colpa della propria espulsione. È un rovesciamento concettuale che non può conciliarsi con la funzione di garanzia della giurisdizione costituzionale.
Compressione degli artt. 4 e 36 Cost.
Ancora più grave è la riduzione degli artt. 4 e 36 Cost. alla grammatica del sinallagma: se non lavori, non sei pagato. Infatti, il lavoratore è impedito dal lavorare per effetto di un requisito legale che non coincide con un’impossibilità tecnica della prestazione e che, soprattutto, non realizza la promessa di sicurezza su cui si fonda.
Degradazione dei diritti sociali
Il diritto alla retribuzione sufficiente non può essere degradato a “effetto contrattuale” manovrabile da condizioni amministrative contingenti; altrimenti, i diritti sociali cessano di essere diritti e diventano strumenti di policy. Il lavoro, non va mai dimenticato, non è un premio di conformità sanitaria, né il salario può diventare la leva ordinaria del governo dei corpi.
Violazione dell’art. 3 Cost.
Neppure l’art. 3 Cost. esce indenne. La generalizzazione (specie per età) diventa il grimaldello per imporre un trattamento uniformemente afflittivo, senza una dimostrazione seria di necessità, né un confronto credibile con alternative meno lesive. Quando la misura è così invasiva da incidere sulla sopravvivenza economica, la ragionevolezza non può consistere nel “non è arbitraria”: deve consistere nel “non schiaccia il nucleo della persona”. Qui, invece, il nucleo viene schiacciato e poi ricoperto da formule di equilibrio.
Il cambio di paradigma costituzionale
Resta la questione più profonda, che la sentenza lascia trasparire come scelta di paradigma: i diritti vengono trattati come variabili funzionali, plasmabili in ragione dell’obiettivo pubblico del momento; la persona come oggetto di gestione del rischio. Il diritto, così, muta vocazione: non è più limite del potere in nome della dignità (e potrebbe esserlo il diritto modernamente inteso?), ma tecnica di governo della condotta.
Conclusione: subordinazione e non bilanciamento
Se un titolo sanitario, per sua natura inidoneo a garantire sicurezza perché non esclude contagio e contagiosità, può ugualmente divenire condizione legale per lavorare e vivere del proprio lavoro, allora la Costituzione perde la sua funzione di argine e diventa una cornice elastica. E quando l’argine cede proprio nel punto in cui corpo, libertà e sostentamento si intrecciano, l’ordinamento non sta “bilanciando”: sta subordinando.
Daniele Trabucco
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