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Sull’ipotesi di messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica e sulle forme di reazione costituzionale del popolo

La funzione presidenziale e i suoi limiti


Il Presidente della Repubblica non è un soggetto politico in senso pieno. La Costituzione lo colloca in una posizione di garanzia, di equilibrio, di custodia dell’ordine costituzionale, non di indirizzo. La sua forza non è quella della decisione, ma quella della neutralità.
Quando il Capo dello Stato abbandona questo ruolo e interviene in modo ripetuto e orientato su temi che attengono alla guerra, al riarmo, alla collocazione militare del Paese, non si è più di fronte a un semplice esercizio di rappresentanza, ma a una torsione della funzione. È in questo scarto che nasce il problema giuridico.


La responsabilità del Presidente nella Costituzione


L’articolo 90 della Costituzione introduce una responsabilità eccezionale, ma non simbolica. Il Presidente non è irresponsabile in senso assoluto: risponde per alto tradimento e per attentato alla Costituzione.
La nozione di attentato alla Costituzione non può essere ridotta a un gesto eversivo plateale. La Costituzione può essere violata anche senza essere formalmente infranta, quando un suo principio fondamentale viene svuotato, reinterpretato in senso opposto o reso inoffensivo attraverso una prassi istituzionale costante. Il diritto costituzionale non vive solo di atti, ma anche di omissioni significative.
Il ripudio della guerra come principio supremo.


L’articolo 11 della Costituzione italiana non lascia margini di ambiguità.

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Non si tratta di un auspicio morale, ma di una scelta costituente che segna un confine invalicabile.
Il ripudio della guerra non riguarda soltanto la guerra dichiarata in senso classico. Riguarda anche la partecipazione sostanziale ai conflitti altrui, il finanziamento della guerra, l’invio di armi, la legittimazione culturale e politica del riarmo. Tutto ciò che rende la guerra possibile, sostenibile, normale, entra nell’orbita del divieto costituzionale.


Il riarmo come rovesciamento del dettato costituzionale


Quando il Presidente della Repubblica definisce “necessaria” la spesa militare, quando collega il riarmo alla tutela della pace, quando presenta la difesa armata comune come un orizzonte inevitabile, egli non si limita a descrivere una realtà geopolitica. Egli contribuisce a ridefinire il significato stesso dell’articolo 11, trasformando il ripudio della guerra in una sua gestione più efficiente.
Qui si consuma il passaggio più delicato: la Costituzione non viene negata, ma reinterpretata contro se stessa. La guerra non è più ripudiata, ma normalizzata; la pace non è più alternativa alle armi, ma loro conseguenza; la libertà non precede la forza, ma ne diventa il prodotto.
Il silenzio del Capo dello Stato di fronte alla dottrina della guerra preventiva.


A rendere ancora più grave questo quadro non è soltanto ciò che il Presidente della Repubblica afferma, ma ciò che omette.


Negli ultimi temoi, generali italiani in servizio o in posizione apicale hanno rilasciato dichiarazioni pubbliche che evocano apertamente la possibilità della guerra preventiva, della necessità di prepararsi a colpire per primi, dell’inevitabilità del conflitto armato come strumento di sicurezza.
Tali esternazioni non sono opinioni private. Provengono da soggetti che appartengono alle Forze Armate della Repubblica, vincolate costituzionalmente al principio del ripudio della guerra e alla subordinazione al potere civile.
Di fronte a queste affermazioni, il silenzio del Capo dello Stato — che è anche Comandante delle Forze Armate — assume un rilievo giuridico preciso. Non si tratta di una scelta di stile comunicativo, ma di una mancata riaffermazione dei limiti costituzionali.
Quando dottrine incompatibili con la Costituzione vengono pronunciate pubblicamente da vertici militari e non vengono smentite, corrette o ricondotte all’alveo costituzionale, il rischio è quello di una copertura istituzionale tacita. La guerra preventiva, per definizione, è l’esatto contrario dell’articolo 11. Tollerarne la legittimazione culturale equivale a svuotare il principio costituzionale senza bisogno di abrogarlo.


L’attentato alla Costituzione come fenomeno sistemico


In questo contesto, l’ipotesi di attentato alla Costituzione non appare come un’esagerazione polemica, ma come una questione giuridicamente fondata. L’attentato non consiste necessariamente in un atto violento, ma può manifestarsi come un comportamento istituzionale reiterato, fatto di parole, silenzi e omissioni, che altera l’equilibrio costituzionale e svuota un principio supremo.
Quando l’organo chiamato a custodire la Costituzione non interviene per arginare derive apertamente incompatibili con essa, il problema non è politico ma costituzionale. Il silenzio, in questi casi, non è neutralità: è inerzia qualificata.
La messa in stato d’accusa: un istituto reale ma politicamente inibito
La Costituzione prevede la messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica attraverso il Parlamento in seduta comune. È un istituto reale, non ornamentale, ma la sua attivazione è oggi politicamente quasi impensabile. Il sistema tende a proteggere se stesso, soprattutto quando le scelte fondamentali sono condivise trasversalmente.
Tuttavia, l’improbabilità politica non cancella la rilevanza giuridica. Un istituto che non viene applicato non per mancanza di presupposti, ma per convenienza del potere, rivela una crisi profonda del costituzionalismo.
Il popolo e la resistenza costituzionale
Il popolo non ha strumenti diretti per attivare la messa in stato d’accusa, ma non è privo di mezzi. La Costituzione riconosce forme di partecipazione e di reazione che, se esercitate con rigore, possono incidere nel tempo.
La critica pubblica motivata, le petizioni alle Camere, gli atti di contestazione civile, la costruzione di un dissenso giuridico documentato sono strumenti che non producono effetti immediati, ma sedimentano responsabilità. In una democrazia costituzionale, la storia conta quanto l’attualità.
Quando le istituzioni tradiscono i principi supremi, nasce anche una forma legittima di obiezione di coscienza civile, non violenta, fondata sulla fedeltà alla Costituzione contro le sue deformazioni.


La frattura


La Costituzione italiana nasce dalle macerie della guerra e contro la guerra. Ogni tentativo di renderla compatibile con una logica di riarmo permanente ne tradisce l’anima profonda.
Quando il Capo dello Stato assume come inevitabile ciò che la Costituzione ripudia, e al tempo stesso tace di fronte alla legittimazione militare della guerra preventiva, si apre una frattura tra legalità formale e legittimità sostanziale.
È in questa frattura che il diritto rischia di perdere la sua funzione più alta: quella di limite del potere.
E quando il limite cade, la responsabilità non è solo di chi governa, ma anche di chi, potendo parlare, sceglie di non farlo.

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