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Circolare anti-cellulari: tra buone intenzioni e cattivi strumenti

Non si possono limitare diritti fondamentali in via amministrativa. Il fine non giustifica i mezzi. Ogni volta che lo si fa, si rischia di abituare il Paese a un modello da “gregge non pensante”, che accetta passivamente la compressione delle libertà personali in nome di un presunto bene collettivo. Tristi esempi recenti, come l’abuso dei DPCM durante l’emergenza pandemica, dovrebbero aver insegnato qualcosa.

La nuova circolare ministeriale che vieta l’uso dei cellulari a scuola nasce con un intento dichiarato positivo: ridurre le distrazioni, favorire la concentrazione, proteggere l’ambiente educativo. Si veda la Circolare Ministeriale n. 3392 del 16 giugno 2025 e nota n. 5274 dell’11 luglio 2024. Obiettivi condivisibili, perché nessuno può negare che la dispersione digitale eroda la qualità dell’apprendimento. Tuttavia, la bontà del fine non sana la fragilità del mezzo.

Una circolare non è legge. Non è neppure un regolamento con forza normativa. È un atto amministrativo interno, che vincola dirigenti e docenti, ma non può pretendere di avere effetti diretti sugli studenti. Qui si tocca un nodo costituzionale: l’art. 13 della Costituzione stabilisce che la libertà personale è inviolabile e che ogni restrizione può avvenire solo per legge e con le garanzie della riserva di giurisdizione. Pretendere di imporre un divieto generalizzato agli studenti con una circolare significa travalicare i limiti della gerarchia delle fonti e scivolare in un terreno di pericolosa arbitrarietà.

Il meccanismo delineato è farraginoso: si vieta tutto, salvo eccezioni da documentare, protocollare, archiviare. In questo modo si produce un paradosso: si proclama di voler ridurre la burocrazia scolastica, ma la si gonfia creando un sistema di sorveglianza interna, con registri e fascicoli relativi a ogni uso autorizzato dello smartphone. Ciò non solo appesantisce l’attività scolastica, ma solleva gravi problemi di tutela della privacy: dati, autorizzazioni e comportamenti individuali degli studenti finiscono per essere cristallizzati in atti amministrativi che nulla hanno a che fare con la funzione educativa.

La conseguenza è che lo strumento pensato per “educare” diventa un mezzo per controllare. Il docente si trasforma in vigilante e verbalizzatore, più che in educatore. Lo studente, a sua volta, viene abituato non a esercitare responsabilità, ma a obbedire formalmente a un divieto imposto dall’alto. Non si educa al discernimento, si addestra al conformismo.

È questo il punto più grave: si consolida una prassi in cui la libertà è compressa non da una legge discussa in Parlamento, ma da un atto amministrativo calato dall’alto. Si ripete così lo schema già visto in altri frangenti emergenziali: atti “minori” che, in assenza di controllo democratico, finiscono per incidere su diritti primari.

In conclusione, il problema non è l’obiettivo – ridurre l’abuso dei cellulari in classe – ma il metodo. Vietare con una circolare significa tradire lo spirito costituzionale. Un ordinamento democratico non può permettere che la libertà personale diventi materia di modulistica e protocolli. La scuola dovrebbe insegnare il senso critico, non l’abitudine cieca al divieto.

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