Prof. Daniele Trabucco
Il recente pacchetto normativo dell’Unione Europea in materia di efficienza energetica degli edifici segna uno dei punti di massima tensione tra il diritto positivo europeo e i fondamenti stessi del diritto naturale.
La direttiva (UE) 2023/1791 sull’efficienza energetica (Energy Efficiency Directive – EED), entrata in vigore nell’ottobre 2023, obbliga gli Stati membri a ridurre i consumi energetici finali dell’11,7% entro il 2030, con recepimento previsto entro l’11 ottobre 2025 e misure aggiuntive entro il 2027 per le grandi imprese energivore.
La direttiva (UE) 2024/1275 sulla prestazione energetica nell’edilizia (EPBD IV), pubblicata nel maggio 2024 ed entrata in vigore lo stesso mese, stabilisce, invece, che tutti i nuovi edifici siano a emissioni zero dal 2030, anticipando al 2028 il termine per quelli pubblici e imponendo una progressiva riqualificazione del patrimonio esistente entro il 2030 e il 2033.
Gli Stati hanno formalmente due anni per recepirla, anche se alcune misure sono già operative. In Italia, il recepimento resta incompleto: per la direttiva 2023/1791 si lavora ancora a livello ministeriale con piani di attuazione settoriali, mentre per l’EPBD IV non vi è ancora una normativa specifica.
Nel frattempo, i cittadini e gli operatori economici si trovano nell’incertezza: da un lato obblighi di enorme impatto, dall’altro strumenti giuridici e finanziari non ancora definiti.
Il primo nodo critico riguarda la compatibilità stessa di queste direttive con i principi del Trattato di Lisbona del 2007. Gli artt. 5 TUE e 191-194 TFUE pongono limiti chiari all’azione dell’Unione, fondata sui criteri di proporzionalità e sussidiarietà.
L’Unione può intervenire solo se e nella misura in cui gli obiettivi non possono essere raggiunti dagli Stati membri e se le misure adottate risultano adeguate e proporzionate al fine perseguito. Qui, invece, tali principi vengono rovesciati.
La disciplina europea ignora la diversità dei patrimoni edilizi, delle condizioni economiche e delle specificità climatiche: impone parametri uniformi a contesti profondamente diseguali, generando oneri sproporzionati per alcuni Stati rispetto ad altri.
L’Italia, con un patrimonio edilizio antico e diffuso, è colpita ben più duramente di Paesi del Nord Europa. Si tratta di un’evidente violazione del principio di proporzionalità, poiché i mezzi adottati non sono commisurati alle conseguenze, e del principio di adeguatezza, poiché gli obiettivi di riduzione delle emissioni non giustificano l’imposizione di sacrifici economici e sociali di questa portata.
Le direttive finiscono così per risultare incompatibili con la lettera e lo spirito del Trattato di Lisbona, trasformando l’Unione da ordinamento di cooperazione a ordinamento di pianificazione forzata.
Sul piano strettamente filosofico è evidente la rottura con il diritto naturale. Nella tradizione, infatti, del diritto naturale classico, che si radica nel pensiero aristotelico e tomista, il diritto positivo è giusto se partecipa alla legge naturale e se orienta l’azione politica al bene comune autentico, inteso come armonia ordinata di beni molteplici.
Nessun bene particolare può assurgere a criterio assoluto di giudizio: né la ricchezza economica, né la forza politica, né la sostenibilità ambientale.
Le direttive europee tradiscono questo principio fondamentale, perché subordinano ogni altro valore alla neutralità climatica, intesa come unico metro di legittimazione delle politiche pubbliche.
La casa, luogo naturale della famiglia e rifugio essenziale della persona, non è più concepita come bene primario da proteggere, ma come oggetto tecnico da plasmare in funzione di parametri energetici.
Si tratta di una torsione profonda del diritto, che smarrisce la sua misura antropologica e diventa mero strumento funzionale a un obiettivo parziale. In tal modo, il diritto cessa di essere ordinamento razionale e si riduce a meccanismo di dominio.
Infine, queste direttive devono essere comprese nel loro significato politico ultimo: esse rappresentano un progetto di ingegneria sociale. L’Unione non si limita a regolare il mercato o a promuovere la cooperazione: pretende di determinare i modi stessi dell’abitare, imponendo a milioni di cittadini scelte obbligate sui loro beni più intimi e vitali.
Non si tratta di un sostegno alla transizione ecologica, bensì di una trasformazione coatta dei comportamenti individuali e collettivi, che svuota di contenuto la libertà e la sovranità degli Stati membri.
La logica sottesa è chiara: creare un cittadino “nuovo” disciplinato e conforme ai parametri imposti, sacrificando la libertà reale sull’altare di un futuro astratto e di una sostenibilità concepita come dogma.
In questo senso, la normativa europea sulle case green non è un provvedimento tecnico, ma un manifesto ideologico che segna il trionfo della tecnocrazia sul politico e della pianificazione sull’ordine naturale.
È il segno di un’Europa che ha smarrito il diritto e ha scelto la via della follia normativa, piegando l’uomo e la comunità a un modello disumano.
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